Il Re della roccia.

di Diego Crestani

Il Re della roccia[Ra, noto anche nella forma Rê, è il Dio Sole di Eliopoli nell'antico Egitto. Emerse dalle acque primordiali del Nun portato tra le corna della vacca celeste, la dea Mehetueret.]

In un tempo lontano, tanto lontano da noi da averne persa la storia, sparuti gruppi di uomini e donne già affrontavano sulle nostre montagne la misteriosa e perigliosa avventura della vita.
Ebre, in una di quelle remote mattine, fu svegliata di soprassalto da forti dolori al ventre e da un malessere generale quand’era ancor buio. Capì che finalmente era l’ora. Non si spaventò, conosceva quelle sensazioni: già due volte in passato aveva staccato il frutto maturato dentro di lei. Ma entrambe le volte il frutto si era deteriorato in pochi giorni. Perché? Si chiedeva con amarezza. Cosa c’era in lei che le impediva di dare frutti buoni come le altre donne? Perché non riusciva a fornire nuove buone braccia alla sua famiglia?
Da tempo aveva cercato di accoppiarsi con i giovani più forti del suo clan, aveva cercato di evitare colpi e scossoni al suo corpo, aveva accarezzato il suo ventre ogni giorno più prominente come accarezzava i cuccioli degli animali per rassicurarli. Adesso era venuto il momento di capire se era pianta da frutto o ramo già rinsecchito.
Si alzò a fatica e, cercando di non svegliare gli altri, uscì dalla capanna. Solo la cagna che dormiva accovacciata fuori della porta alzò la testa per controllare e, in quello sguardo interrogativo, ad Ebre parve cogliere la partecipe comprensione di un’altra madre.
A sinistra, verso le terre basse, vide che il cielo stava schiarendo e le stelle pian piano si spegnevano.
Andò a sedersi sotto l’alto tronco dell’albero sacro. Si accomodò tra le radici affioranti in modo da sentirne l’abbraccio e la protezione. Una nuova vampata di dolore la invase. Chiuse gli occhi e strinse i pugni, doveva aspettare. Ansiosa, fissò lo sguardo a levante cercando di capire quanto mancava al sorgere del sole. I dolori si stavano via via facendo più lancinanti, tanto da non riuscire a frenare i gemiti. Furono i cani, mugolanti in loro risposta, che svegliarono gli altri della famiglia distesi nei giacigli dentro la capanna. Le donne capirono subito. Gli uomini si voltarono indifferenti perché la cosa non li riguardava. La più anziana della casa si levò ed andò ad accovacciarsi al suo fianco sotto l’albero. Non disse nulla, tutto andava come doveva.
Ebre notò che la bassa nebbia giù sulle paludi del piano andava gradatamente schiarendo, ma intanto il fiato le si faceva corto e il cuore batteva forte, come stesse impazzendo. Per le vampate di dolore e calore si sentiva mancare: tutto intorno si attutiva e annebbiava.
Fu tra lacrime di dolore tenacemente represse che vide finalmente il rosso bagliore del Cerchio sacro apparire maestoso dinanzi a lei. Proruppe allora in un’implorazione supplichevole: <<Raha, raha a ve! Raha a ve! Raha a ve!...>>. Dio Sole, a te. A te lo consegno. Proteggilo tu. Proteggi la sua vita, urlava lasciando che il suo frutto si staccasse da lei per scendere sulla nuda terra.
E da allora quel suo frutto venne chiamato da tutti Raavé.

*****

L’acqua limpida e rumorosa scorreva tra i sassi del torrente. Gli alberi si erano colorati di tinte calde e l’aria cristallina e fresca rendeva terso l’orizzonte. Con i piedi ormai insensibili per il freddo, Raavé, lento e cauto nell’acqua di una larga pozza, tastava con le mani sotto ogni pietra attento a percepire il contatto con il viscido dei pesci. Erano in pochi a saperlo fare, ed era forse l’unico a non avere paura dell’acqua. L’acqua era natura, lui era natura: cosa doveva temere?
Giovane, sano, coraggioso e sicuro di sé come lo è chi da sempre si sente protetto dal fato, Raavé si distingueva dagli altri giovani per la sete inesauribile di sorprendere le infinite manifestazioni della natura e rendersene parte.
All’approssimarsi della sera, contento del suo bottino, prese il sentiero per il villaggio.
Fu quando svoltò oltre la Cengia del Lupo, da dove tra il fogliame potevano essere scorte le capanne, che udì in lontananza i lamenti e i pianti delle donne.
Arrivò che tutto era successo. Subito non capì la gravità, ma ben presto, mettendo insieme le frasi sconnesse delle donne e il rabbioso furore degli uomini feriti, si rese conto che la sopravvivenza di tutta la famiglia era gravemente compromessa.
Erano stati gli uomini dal pelo fulvo, quelli che da qualche tempo si erano stabiliti sui pendii scoscesi della valle a settentrione, che erano venuti a sorprenderli e a razziare tutti i loro animali. Avevano portato via anche Biandè, la giovane donna più prosperosa della famiglia, per farne una schiava e, forse, se fortunata, una fattrice.
Gli uomini di casa, presi alla sprovvista, non avevano potuto fare granché e ora giacevano a terra feriti e doloranti, sconfortati e umiliati. Le donne, ancora atterrite, avevano subito compreso che, all’avvicinarsi del grande freddo, senza animali non avrebbero potuto sopravvivere.
Quella fu una notte agitata per tutti loro, piena di tristi pensieri anche per Raavé.
A mattino non ancor fatto, raccolte poche cose in un fardello appeso al suo robusto bastone, si allontanò senza dire niente a nessuno. Gli altri pensarono che era giusto così. Lui era giovane e forte: doveva tentare di sopravvivere altrove piuttosto che restare a consumare le poche risorse rimaste.
Seguì la strada che i razziatori avevano percorso per tornare alle loro capanne. Non fu difficile individuarla: pecore e capre avevano lasciato il loro escrementi e gli uomini, sentendosi sicuri, non si erano dati pena di nascondere le tracce.
Non sapeva ciò che stava facendo, ma di una cosa era certo: non si sarebbe arreso.
Il mattino seguente giunse nei pressi del villaggio dei suoi nemici, lui che fino ad allora non aveva conosciuto nemici.
Ora non doveva farsi scoprire e attendere che l’intimo alito del luogo gli rivelasse come agire.
Gli uomini erano rudi, rumorosi, forti e coraggiosi, abituati alla lotta. Intorno al loro villaggio poche tracce di coltivazione. Discosto, verso la forra illuminata solo dal sole cadente, un grosso recinto di rami contorti ospitava di notte gli animali. Dentro il recinto, sotto un esile albero dalla bianca corteccia, era ancora legata Biandé.
Tutt’intorno i cani vagavano attenti a segnalare un eventuale pericolo.
Rimase l’intero giorno steso sotto mucchi di frasche, per nascondere anche il suo odore, dubbioso su cosa avrebbe potuto fare da solo.
Con il buio, mentre nel villaggio consumavano il pasto radunati intorno al fuoco, Raavé cedette alla spossatezza e si addormentò. Stava sognando anche per lui un gran fuoco con cui scaldarsi, quando fu svegliato nel pieno della notte dal vento che s’era levato d’improvviso.
Come nel suo essere, cercò di intendere il messaggio che la Natura gli stava inviando. E capì.
Con le forze rinvigorite strisciò cauto tra i cespugli ormai secchi più a valle del villaggio e là, protetto dietro un grosso masso, rapido accese un fuoco tra gli sterpi. Il vento, venuto in suo aiuto, soffiò sempre più forte alimentando le fiamme tutt’intorno e spingendole voraci verso le capanne.
Ci volle poco perché i cani dessero l’allarme e la gente risvegliata, compreso il pericolo, corresse qua e là confusa e spaventata, preoccupata di salvare quanto possibile.
In quel trambusto nessuno badò all’ombra di Raavé corso furtivo a liberare la disperata Biandè e poi, insieme a lei, a condurre gli animali fuori dal recinto. Non li prese tutti, erano troppi e, così tanti, difficili da guidare. E poi voleva lasciare anche a loro, seppur nemici, la possibilità di sopravvivere.
Dovevano allontanarsi in fretta: quando gli uomini dal rosso pelo avessero capito l’inganno li avrebbero inseguiti inferociti.
Percorsero una via lunga ed estenuante per far perdere le tracce nelle paludi del piano.
Arrivarono al loro villaggio dopo tre giorni di continuo incerto vagare, sempre con la paura di essere raggiunti
Si fece gran festa e intorno al fuoco Biandè non si stancava di ripetere come incredula avesse visto apparire dalla profondità della terra, tra un alone di fuoco, l’ombra di Raavé giunto a liberarla.
La storia si diffuse tra le altre famiglie della tribù e da quel giorno Raavé non fu solo un giovane dalle strane abitudini, figlio del Sole, ma per tutti l’eletto mandato a guidarli sulla via perigliosa dell’esistenza.

*****

Già i suoi avi, fin dall’origine del mondo, erano andati sulla cima di quella montagna a rendere omaggio alle forze sacre dell’universo e a cercare la risposta alla domanda che da sola contiene tutte le domande. Da tempo per lui la salita si stava facendo ogni volta più dura, il fiato corto e ansimante, le giunture sempre più dolorose,.
Seduto sul masso sacro su cui soleva lasciarsi penetrare dal Grande Spirito della Natura, quel giorno rivisse tanti momenti della sua avventurosa esistenza senza provarne più emozione, ma sereno distacco.
Da quando aveva salvato la sua gente da morte certa recuperandone gli animali, era stato investito da tutti di un’autorità sacra che, se da un lato lo esaltava, lo aveva reso anche diverso e solo tra tutti loro.
Sapeva che intorno al fuoco avrebbero raccontato ancora per molto tempo le sue gesta, ricordato il suo raro dominio dell’occulto, testimoniato i multiformi aiuti alla sua gente nei momenti più difficili. Ora però era stanco, esausto. Anelava tornare spirito senza corpo, dissolto nei raggi del sacro fuoco a cui la madre l’aveva un giorno offerto.
Là, su quella pietra, fu trovato assorto e ormai rigido quando le sue donne preoccupate lo andarono a cercare. Fu pianto a lungo e a suo perpetuo ricordo su quella Roccia vennero scavate sacre conche a formare figura di Re. Si dice che da quella lui abbia continuato a vegliare sul suo popolo e, ancora oggi, c’è chi va lassù a dialogare con lui, seduto sulla sua pietra, con gli occhi rivolti al grande astro che infonde vita al nostro mondo.

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